
Da circa sei anni ho uno zainetto che viene quasi sempre con me.
‘Sti sei anni li comincia anche a sentire, ma fino a quando regge me lo tengo stretto, oltretutto è pure un regalo.
Non ci sono grandi cose dentro: uno o due libri, un quadernetto (o un bloc notes, o comunque qualcosa che abbia dei fogli su cui scrivere), penna, matita, mentine e antistaminico, che non si sa mai. Occasionalmente, caricabatterie, cuffie, sigarette ed accendino.
Devo essere sincero: è veramente raro che usi quello che c’è là dentro, anche perché- dipende dalla situazione- potrebbero non essere esattamente cose così risolutive.
Però mi fa da scudo, è una specie di coperta di Linus: so che, comunque, un libro da leggere è sempre buono avercelo. E un qualcosa su cui poter scrivere può sempre tornare utile.
Ci andrei in capo al mondo, con quello zainetto.
Intendo, proprio solo con quello. Ha dentro tutto il mio stretto necessario, e per me va benissimo così.
Poi fa molto “escursionista dilettante”, e io, se possibile, da tutto quello che è “professionismo”- tanto più se ostentato- vorrei tenermi alla larga.
È come se quello zainetto fosse una sorta di assicurazione sul rimanere dentro le cose, come se mi ricordasse il motivo vero, “nudo”, delle mie uscite.
Un “terzo occhio” ipotetico, pronto a rimettermi tutto nella giusta prospettiva, senza il quale tutto sarebbe eccessivamente sfumato, poco presente a me e al mondo.
Ero in campagna da Ale quando ho scattato questa foto.
Qualche tempo dopo, mi è capitato di ripassare da quella strada, ed era già una strada nuova.
Completamente deserta, attorno un silenzio quasi irreale.
Fosse stato un film, sarebbe stato uno spannung perfetto, il momento in cui al protagonista succede qualcosa di irreparabile.
Ma nessuno stava girando niente, ed io non percepivo neanche lontanamente l’ombra di un pericolo, nonostante fossi solo e ben lontano dal paese.
C’era un freschetto abbastanza pungente, soprattutto per essere l’immediato dopopranzo di un giorno di Aprile in Sicilia, con un cielo torbido eppure altrettanto innocuo.
Ho pensato che a me, fondamentalmente, tutto questo piace.
Mi piace il suono sdrucciolo delle scarpe sulla ghiaia, mi piacciono le ferite che hanno tutte le nostre strade, che forse sono le stesse che abbiamo noi.
Mi piace il fatalismo affamato delle cappelle votive che incontri casualmente in un curtigghiu, il loro eterno rincorrersi fra religione e superstizione.
Mi piace la sobrietà della nostra “filosofia agricola”, la solitudine fiduciosa delle carriole lasciate in campagna.
Mi piacciono perché fanno parte di me, e sarà sempre così, è un DNA estemporaneo.
Le metto lì, accanto al mio stretto necessario.
Adesso mi sa che il mio zainetto è pieno.





















