Scatti Corsari

Rivelazioni fotografiche estemporanee

Lo stretto necessario

Campofiorito, 25/ 03/ 2024

Da circa sei anni ho uno zainetto che viene quasi sempre con me.


‘Sti sei anni li comincia anche a sentire, ma fino a quando regge me lo tengo stretto, oltretutto è pure un regalo.
Non ci sono grandi cose dentro: uno o due libri, un quadernetto (o un bloc notes, o comunque qualcosa che abbia dei fogli su cui scrivere), penna, matita, mentine e antistaminico, che non si sa mai. Occasionalmente, caricabatterie, cuffie, sigarette ed accendino.


Devo essere sincero: è veramente raro che usi quello che c’è là dentro, anche perché- dipende dalla situazione- potrebbero non essere esattamente cose così risolutive.
Però mi fa da scudo, è una specie di coperta di Linus: so che, comunque, un libro da leggere è sempre buono avercelo. E un qualcosa su cui poter scrivere può sempre tornare utile.


Ci andrei in capo al mondo, con quello zainetto.
Intendo, proprio solo con quello. Ha dentro tutto il mio stretto necessario, e per me va benissimo così.


Poi fa molto “escursionista dilettante”, e io, se possibile, da tutto quello che è “professionismo”- tanto più se ostentato- vorrei tenermi alla larga.
È come se quello zainetto fosse una sorta di assicurazione sul rimanere dentro le cose, come se mi ricordasse il motivo vero, “nudo”, delle mie uscite.
Un “terzo occhio” ipotetico, pronto a rimettermi tutto nella giusta prospettiva, senza il quale tutto sarebbe eccessivamente sfumato, poco presente a me e al mondo.


Ero in campagna da Ale quando ho scattato questa foto.
Qualche tempo dopo, mi è capitato di ripassare da quella strada, ed era già una strada nuova.


Completamente deserta, attorno un silenzio quasi irreale.
Fosse stato un film, sarebbe stato uno spannung perfetto, il momento in cui al protagonista succede qualcosa di irreparabile.
Ma nessuno stava girando niente, ed io non percepivo neanche lontanamente l’ombra di un pericolo, nonostante fossi solo e ben lontano dal paese.


C’era un freschetto abbastanza pungente, soprattutto per essere l’immediato dopopranzo di un giorno di Aprile in Sicilia, con un cielo torbido eppure altrettanto innocuo.


Ho pensato che a me, fondamentalmente, tutto questo piace.
Mi piace il suono sdrucciolo delle scarpe sulla ghiaia, mi piacciono le ferite che hanno tutte le nostre strade, che forse sono le stesse che abbiamo noi.
Mi piace il fatalismo affamato delle cappelle votive che incontri casualmente in un curtigghiu, il loro eterno rincorrersi fra religione e superstizione.
Mi piace la sobrietà della nostra “filosofia agricola”, la solitudine fiduciosa delle carriole lasciate in campagna.
Mi piacciono perché fanno parte di me, e sarà sempre così, è un DNA estemporaneo.
Le metto lì, accanto al mio stretto necessario.


Adesso mi sa che il mio zainetto è pieno.

Grande Raccordo Animale

Palermo (sulla strada per), 12/ 03/ 2024

Viandante, sono le tue orme
Il sentiero, e niente più;
Viandante, non esiste sentiero,
Il sentiero si fa camminando


Machado aveva ragione, chi scrive belle poesie ha sempre ragione.
Però mi sa che non gli successe mai di sentirsi come un criceto in una ruota.
Un eterno camminare in circolo, quasi un gesto meccanico fatto solo perché è così che tutti fanno.


Adesso non voglio dire che tutto questo non abbia senso, ci mancherebbe, anzi.

È un po’ come quel disegnetto che Francesco ha in ufficio: c’è un uomo sulla cima di una montagna, poi è nella depressione fra due cime. E sopra c’è scritto “A volte sono in cima, altre volte sono giù, ma va tutto bene perché avanzo”.
Probabilmente il bello del gioco è anche questo.
Qua cime non ne abbiamo, ma va bene uguale, avanziamo lo stesso.
Tutti quanti a camminare sul Grande Raccordo Animale.


Perché siamo davvero animali sociali, abbiamo bisogno di relazioni per continuare il viaggio, solo che cominciamo a dimenticarlo troppo spesso: di “animale sociale” ci stiamo tenendo solo la prima parte, animale.
E, parafrasando qualcuno, io non temo l’animale fuori di me: temo l’animale dentro di me. Ho paura che il circostante (e le circostanze) finiscano per renderci tutti ancora più cattivi, ancora più squali, lupi, avvoltoi.
Perché poi è così, nel mondo animale c’è la legge della giungla, si salva il più forte, o quantomeno chi si adatta meglio, chi si mangia il proprio simile.
È brutta, questa savana a cielo aperto, in cui per salvarti devi staccarti da te, azzerarti e fare in modo di essere un altro.


Poi, oh, c’è gente che non vedeva l’ora di oscillare fra l’essere lo squalo più forte per mangiarsi gli altri alla prima occasione buona e l’essere il pavone più bello per essere in prima fila in vetrina.


Io non ho niente da mettere in mostra, “sto dalla parte della cicala, che il più bel canto non vende, regala”.
Non lo so fare, sono così illuso da continuare ad essere fermamente convinto che contino le idee, e che ci sono idee bellissime che nascono con la sobrietà e la gentilezza delle margherite in primavera, calpestate da idee avvelenate ma rese vincenti a colpi di grancassa e faccia tosta.


Poi abbiamo anche smesso di cantare, spesso urliamo e basta.
Ed in un mondo in cui vince chi urla di più, io mi sento completamente afono.
Lo sono anche per scelta, attenzione. Ma sarei anche ipocrita se dicessi che la cosa non mi preoccupi, certi giorni più di altri.


E dai che si sa che non sono sincero quando dico in giro che non cerco la felicità”, canta quel giorgiocanali che non è altro.
No, la felicità la cerco eccome, ma non riuscirei mai a cercare solo la mia: Paz diceva che la felicità è rivoluzionaria solo quando è collettivizzata. Sarebbe una rivoluzione gentile, questa.
E forse sarebbe l’unica possibile, quantomeno l’unica necessaria: ci permetterebbe di tornare a vedere la fragilità come un valore, il mettersi sempre in dubbio come una costante fame di mondo.


Perché sì, ci ripetono a manetta che adesso siamo più sensibili alla fragilità e tutte quelle belle parole piene di pietismo travestito da empatia, ma la verità è che poi il mondo ti mangia, e tu devi capire come non diventare cibo per pesci.


Predatori e prede, in barba a tutte le etichette strappate in questi anni.

Un sistema binario perfetto: odio e amore, folle e normale, sul grande raccordo animale”.

Fermoimmagine e impressioni di Peppe

Canto pe’ nun suffrì

Campofiorito, 12/ 04/ 2024

Ho capito di saper scrivere al primo anno di liceo, quasi dieci anni fa, quando nei saggi brevi non andavo oltre il 6.

E ci ho messo quasi dieci anni per capire- ammesso che lo abbia effettivamente fatto- che, nella vita, l’unica cosa che conta è trovarsi delle cornici.

Inteso, delle cornici che facciano da demarcazione nitida del loro stesso contenuto, ma che possano essere, all’occorrenza, elastiche, per cercare di avere una visuale quanto più completa.

Quei saggi brevi (ma anche, anni dopo, i primi articoli o testi teatrali) mancavano esattamente di una cornice. E la cornice mancante ero esattamente io, che avevo- alle spalle e nella testa- un totale vuoto pneumatico, tipo la classica scena da film western in cui dalle ante del saloon si vede la palletta di paglia secca che rotola nel vento.

Puoi avere dentro tutti i fuochi, i falò e i roghi che vuoi, ma se prima non fai il lettore non puoi pensare di fare lo scrittore, questo l’ho compreso sempre in questi quasi dieci anni.

Quando si diventa lettori compulsivi, si finisce come lo squalo quando odora il sangue: cominci a volerne sempre di più, a capire le sfaccettature, a cogliere le differenze di stile, ad accorgerti cosa ti piace e cosa no.

Ecco come si riempiono le cornici. Non di te stesso, ma di te stesso attraverso gli altri.

Poi diventa terapia.

Ha anche gli stessi momenti di pesante down della terapia.

Il mio ha avuto un nome e un colore, foglio bianco.

Non fa nulla, lui. Sta lì e ti guarda. Immobile, una sfinge. Ti sfida a riempirlo.

Se arrivi da periodi in cui rasenti la grafomania, il foglio bianco è una sberla ancora più assestata. Il meccanismo che si innesca è semplicissimo: sei convinto di avere qualcosa da raccontare, ma a poco a poco ti comincia a venire meno ogni idea, ogni spunto, ogni soggetto, tutto.

Poi ti guardi allo specchio e capisci come stanno le cose: non avevi un cazzo da dire, è molto semplice. E il foglio bianco stava lì a ricordarti che le parole sono cosa sacra, e sprecarle è una bestemmia.

Da lì, diventa il primo alleato di chi scrive. Adesso non ti sfida più, adesso ti ricorda che lui è lì per te e con te, ma sta a te usarlo bene.

E forse, riflettendoci meglio, oltre che cornici, dovremmo avere tutti un foglio bianco nella nostra vita, fosse solo perché torneremmo ad accorgerci di quanto sia importante il silenzio.

Diventa tutto terapia anche quando metti lo scafandro da palombaro e vai in immersione. A volte rimanere in apnea è necessario per poter risalire meglio, altre volte devi arrivare fino al fondale, ad andare a pescare gli argomenti con cui convincere di nuovo “l’orsetto che vuol farla finita” a “sfidare la propria pazzia” e salutare il cornicione da dentro la finestra anche stavolta.

A quel punto lì capisci che stai scrivendo per esercizio inevitabile di razionalità: se alle cose dai un nome, ti fanno meno paura, e finisci per capire come combatterle. Semmai, ogni tanto fa male darlo, quel nome.

È operare uno strappo doloroso ma salvavita, come un uccello rimasto in trappola che, ad un certo punto, pur di scappare, rompe direttamente il vetro: sa che si farà male, ma il gioco vale la candela.

Già solo per quello, scrivere (così come cantare, recitare e tutte le derivazioni possibili ed intime che ognuno di noi potrà trovare) non potrà mai essere sofferenza, dolore, lutto.

Anzi, è l’esatta celebrazione della vita, come a dire “Te lo sto raccontando, significa che sto qua, che ce l’ho fatta anche stavolta”.

Scrivo esattamente per non soffrire. Scrivere diventa il momento in cui la sofferenza non solo l’ho masticata, ma l’ho già digerita. Diventa il punto di equilibrio fra la gioia più cristallina e la tristezza più abissale, la bussola fra due cicloni.

È il momento in cui mi ricordo di essere la cornice da cui “vedo la scrittura come un volo stellare” e “non vedo la paura, vedo solo l’attesa, espressa in un eccesso di fragilità”.

Attesa e inaspettata

Bisacquino, 26/2/ 2024

L’ultima foto che ho ritrovato stasera nella galleria del mio cellulare è proprio questa, ed è la
prima cosa che ricollego visivamente all’attesa.

È un concetto? non credo

Forse dovrebbe essere un modo di essere? o meglio un suggerimento? un consiglio?

Proprio ieri sera, sempre in quel luogo magico, un cliente che si credeva essere un oracolo
divino delfico, ha tenuto una stranissima conversazione con me e la mia RoRo, forse la più
strana che ci sia mai capitata; tra una grappa e l’altra mi ha detto quasi suggerendomi
all’orecchio una frase, che ancora oggi mi continua ad echeggiare in mente:

La cosa più difficile è aspettare, è proprio l’attesa

A T T E S A

Tra un eco e l’altro mi suggerisce una sospensione momentanea, in cui in realtà passa
silenziosamente tutto, in continuo movimento;


Dalla pronuncia delle sillabe da cui è composta la parola, ancora di più, si ha l’idea di
qualcosa che spezza, blocca e invita a riflettere, a riportarci ad un’attenzione primaria.
Se ci penso, ancora ora, proprio mentre sto scrivendo sto attendendo qualcosa, o forse è
dal risultato di un’attesa che questo “qualcosa” inaspettatamente verrà scritto su queste
righe, così come oggi è stato impresso in questa foto.

Così come i nostri capelli, le nostre unghie, così come noi stessi cresciamo, senza renderci
conto che sia passato del tempo, inaspettatamente, senza la nostra volontà lucida, l’attesa è
stata trapassata e continuerà ad esserlo portando a completamento un cambiamento
naturale sedimentando in noi.


Sarà proprio un periodo d’attesa, quello che stiamo vivendo, ma è il periodo che più di tutti mi
sta portando ad una visione di un’attesa vivida, da tenere più a mente, che prende corpo in
parola a volte e in altre si tramuta in quotidiane manifestazioni.


-È l’attesa che la nebbia svanisca così che la vista si rischiari
che i cuscini marciti dalle lacrime inizino a respirare
è attendere un bagliore di luce primaverile
È proprio l’Attesa a cullare ed alimentare i sogni
ATTENDERE invita all’ATTENZIONE e a volte abbiamo bisogno soltanto di ricordarcelo:


“ATTENZIONE!
QUI e SUBITO, ragazzi”1

1- da “L’Isola”, di Aldous Huxley

Fermoimmagine ed impressioni di Ali

Milano Circonvallazione Esterna

Poggioreale, 5/ 11/ 2023

17/ 10/ 2023 – Milano
Oltre la linea, comunque
Tu-tum, tu-tum
Veloce
Tu-tum, tu-tum
Per sempre
Tu-tum, tu-tum
Sonnolento
Tu-Attenzione,
Attenzione
Linea tre interrotta, da ripristinare

Una si è lasciata cadere.

Come osa
Dicono.

E penso, nella tanatarchia,
A chi ancora crede di tirar le fila,
E a chi smette di fingere.

Impressione di Luca, fermoimmagine di Peppe

La lotta armata al bar

Roccamena, 25/ 12/ 2022

Si va per cortocircuiti.

Si vive di cortocircuiti.

Perchè tutto è sempre più polarizzato, con sfumature sempre più cancellate e differenze sempre più appiattite.

E allora si vive di cortocircuiti, si va per cortocircuiti.

Per nervi a fior di pelle, per momenti di sfaglio dell’ordine.

Un Natale assolato, caldissimo, a mia memoria il più caldo di tutti.

Un bar- uno dei pochi, in provincia, a non essere stato sostituito dai distributori automatici, chiuso solo perchè è festa, eppure sprofondato in una solitudine appiccicaticcia, di chi sa che starà aperto solo per esercizio di stile, per non ostinarsi al cinismo dell’abbandono.

Una foto venuta male, non ho la minima idea del perchè sia uscita fuori così fastidiosamente sovraesposta.

Un biliardino solo.

Chi ci gioca più, al biliardino?

Stiamo smantellando, passo dopo passo, ogni forma residua di “comunità”. Giornate furibonde senza atti d’amore, immerse in non- luoghi sempre più squallidi, riempiti da assenze sempre più anestetizzate.

Solitudini senza la spinta poetica, vitale e disperata che porta a dover stare da soli, figlie uniche dell’idea, tutta liberale, capitalista e autoassolutoria, che non abbiamo bisogno dell’altro.

Un tempo enorme […] perchè non si misurava a mesi e neppure ad anni, ma […] a catastrofi spirituali, e a giorni di assoluta solitudine e di inenarrabile tristezza, giorni che si allungano e si deformano, come tenebrosi fantasmi sulla scia del tempo.1

Stiamo smantellando, sempre passo dopo passo, anche il linguaggio: ci si dovrebbe muovere per riuscire a dire l’indicibile, e spesso non si riesce a dire nemmeno il già detto. Un esercizio costante di abbassamento dell’asticella, umana prima che culturale, una corsa sfrenata verso il vuoto pneumatico.

E allora il cortocircuito diventa fuga, diventa necessità di ricominciare a coltivare lo stupore, trovare un antidoto alla morte. Diventa una foto sbagliata su cui immaginare il non dicibile.

Anni liquidi, con un passato dimenticato a bella posta, un presente incolore, melmoso, statico, maleodorante, ed un futuro che è un rosario da sgranare, un atto di fede a cui appendersi, per evitare di appendersi ad una trave del soffitto.

In mezzo, il nostro bagaglio di cortocircuiti, l’unico possibile. Andando sempre a tentoni, ma almeno con la consapevolezza di farlo.

Non sappiamo “che cosa racconteremo ai figli che non avremo, di questi cazzo di anni zero“.

Ma un ultimo cortocircuito ci sarà sempre.

1- da “Sopra eroi e tombe”, di Ernesto Sàbato.

Piazzola in sosta

Campofiorito, 27/ 06/ 2022

Nei piccoli paesi la realtà è fatta di polvere e stasi.

Una stasi collosa, come un chewin- gum masticato ed insapore, che, a non aver le giuste precauzioni, ti stritola come un boa con la sua preda.

Nei piccoli paesi, la stasi è il pane quotidiano, un oceano di gomma in cui si annega senza neanche accorgersi: per morire, basta lasciarsi vivere. Tutto lì.

Eppure, in quella patina di polvere che annebbia le strade, abita una naturale attitudine alla resistenza: già accettare una condizione del genere, presuppone che la spinta vitale sia potente e dinamitarda.

Accettando la polvere, poi, spesso si accetta anche la solitudine che un vischio del genere comporta. Una laguna stanca di solitudine, in cui tutto è in irrefrenabile sosta.

Anche le pompe di benzina vivono di quella solitudine statica, intervallata solo dal brivido di un pieno e da uno scossone alla manichetta della benzina, e squarciata da una lama di luce al neon, lì, a battere l’asfalto solo per riflesso condizionato.

Ed io, che ho ancora capito poco (o forse troppo, non ho capito nemmeno questo, in verità) di cosa ho intorno, so solo che mi sento così.

Come una piazzola in sosta, fra la polvere e la stasi.

La stagione buona

Campofiorito, 9/ 04/ 2025

Nel momento in cui sto cominciando a scrivere, ho appena finito di registrare e missare il mio (meglio: nostro, mio e di Lavinia) primo Ep.

Nel momento in cui leggerete tutto questo, probabilmente sarà già pubblicato.

Oh, devo dire che mi piace anche.

Lavi è bravissima in tutto, sia nello scrivere che nel recitare, e trovo tenerissimo il suo non sapere bene come reagire ai complimenti.

Penso che almeno un paio di arrangiamenti che ho registrato mi siamo uscite effettivamente bene, e mi fa tanto strano non solo dirlo, ma proprio essere contento di qualcosa che ho fatto.

Poi abbiamo registrato le voci mentre giravamo- Lavi da attrice, io da fonico- quel gioiellino che sarà il cortometraggio di Ali e Chiara (a proposito, fra Chiara e Lavinia: che bello quando, fra queste righe, arrivano nomi nuovi, e che bello che spuntino perché diventano casa anche loro): come faccio a non essere felice e grato quando succedono cose del genere?

E però sono anche stanco.

Proprio emotivamente stanco.

A boccate di ossigeno come quelle di sopra, per tutto agosto, si è alternata l’ennesima merda presa in faccia a palate.

Abbiamo presentato “Radio Corleone” a Campofiorito, ed eravamo quattro gatti (cosa che, in sé non mi preoccuperebbe nemmeno, ci sono abituato), quasi nessuno dell’Associazione, quasi nessuno dell’amministrazione.

Io lo so che è difficile, lo so che ‘sto cazzo di profilo basso che teniamo sempre di sicuro non aiuta.

Ma so anche che non ne posso più del vuoto che respiro attorno a me, che prima o poi finirà per uccidermi. O per non farmi fare più niente. Che poi, per quanto mi riguarda, sarebbe praticamente la stessa cosa.

E, attenzione, capisco anche il dramma che c’è dietro questa strafottenza, dietro questo disinteresse, lo so che è il dolore antico della rassegnazione, e che se sei del Sud ce l’hai sotto pelle.

Però ragazzi, davvero, che fatica.

Ho passato una settimana stupenda- quella delle riprese- a Palermo, domenica sera sono tornato a Campofiorito, e dopo venti minuti avevo addosso una gran voglia di piangere e un nodo di malinconia a bloccarmi la gola.

Ci ho messo tre giorni a registrare l’ep.

Non ho fatto altro per tre giorni.

Eppure, mi stanca di più la vita che non mi cammina accanto che non l’avere lavorato senza orario per tre giorni.

Non lo so, forse dovrei solo cercare di stare più attento a ogni segnale, ogni fulmine buono che cade sulla strada.

Magari cominciare a pensare che, dopo tutto, forse è davvero arrivato il tempo buono anche per ambire ad un tempo migliore.

Che ho accanto a me persone che non mi lasciano indietro, e che forse, per la prima volta in ventisette anni, ho capito per davvero cosa voglio fare. E che anche la tristezza che ogni tanto mi accoltella a sorpresa è una componente necessaria di una stagione buona.

Ma tu non farmi accontentare mai, ma fammi desiderare

Dammi il coraggio di sorridere di un sogno, se non si può esaudire“.

Crucifixus

Campofiorito, 25/01/ 2025

La storia è talmente ciclica che Cristo muore ogni giorno.

Più di 50.000 Cristi.

Sventrati dalle bombe.

Uccisi dai soldati.

Calpestati dalle loro stesse case abbattute dai droni.

La storia è talmente ciclica che una sola persona si sta sobbarcando “l’onere” di una nuova strage degli innocenti, esattamente quella da cui scampò il Cristo, e di un nuovo Genocidio.

Ospedali.

Scuole.

Basi della Croce Rossa.

Tutto polvere.

La storia continua ad essere talmente ciclica che c’è gente che, esattamente come settant’anni fa, nega che tutto questo stia accadendo. Anzi, lo giustifica anche.

Bambini.

Anziani.

Donne.

Uomini.

Solo grumi di sangue rappreso.

Li odio. Li odio con tutto me stesso, questi inquinatori di pozzi. Gli auguro il peggio. Seriamente. Li odio perché stanno riuscendo nell’impresa titanica di incattivire anche me, di farmi sperare, per un momento solo, di averli di fronte, e potergli smontare la faccia a cazzotti.

Hanno dalla loro quantomeno l’onestà: sono la fotografia perfetta di un Occidente ipocrita e maleodorante, che blatera di soluzioni di pace sulla pelle di chi non ha più un cazzo, che trova cosa sacrosanta finanziare un riarmo come “deterrente”, ma che poi non trova soldi per mandare aiuti umanitari ai pochi superstiti.

Mi auguro solo, non credendo nella giustizia divina, che prima o poi possa arrivare la giustizia dell’uomo, anche quella sommaria. Soprattutto quella sommaria, come sono stati sommari loro quando hanno disinformato, intorbidito le acque, usato parole ambigue.

Lo so che queste righe sono diventate quasi dei diari “intimi” di chi ci scrive, e mi scuso per i toni che ho usato, avevo solo bisogno di vomitare.

Vi lascio una poesia di Mahmoud Darwish che parla di innocenti massacrati: credo sia adatta per oggi.

“Hanno incatenato la sua bocca

e legato le sue mani alla pietra dei morti.

Hanno detto: “Assassino!”,

gli hanno tolto il cibo, le vesti, le bandiere

e lo hanno gettato nella cella dei morti.

Hanno detto: “Ladro!”,

lo hanno rifiutato in tutti i porti,

hanno portato via il suo piccolo amore,

poi hanno detto: “Profugo!”.

Tu che hai piedi e mani insanguinati,

la notte è effimera,

né gli anelli delle catene sono indistruttibili,

perché i chicchi della mia spiga che va seccando

riempiranno la valle di grano.”

Fermoimmagine e impressioni di Peppe

La pista anarchica

Poggioreale, 16/ 02/2023

“Ad ogni modo, ognuno ha la sua strada” questo mi disse un giorno una vecchia amica. Chiesi il significato di quelle parole ma lei -già con un po’ di alcool in corpo- cambiò discorso e quelle parole rimasero lì come una frase di qualche post su Facebook e come tale scomparve. O almeno, credevamo.

“Ad ogni modo” in qualsiasi maniera, come se fosse già tutto scritto “ognuno ha la sua strada”… Che strano, chi l’ha mai sentita sua questa strada, chi l’ha calpestata la sua strada?

Ogni tanto mi ritorna in mente come un fulmine questa frase e il tuono che ne segue suona come: “Ma qual è la mia strada?” Sembra come tutti vedessero le strade degli altri ma mai la propria.
A questo tuono ne seguono tanti altri: “Troverò mai la mia strada? L’ho già trovata? Posso sceglierla?”. Sceglierla? Da quando una persona comune ha la possibilità di scelta? E se l’avesse avuta, quando lo ha fatto coscientemente e con criterio?

Pensandoci però… Scegliamo sempre qualcosa.

Scegliamo di svegliarci, di vestirci, di mangiare, di andare a lavoro, scegliamo di ridere, di piangere, di bestemmiare, di amare, di sognare.
Scegliamo le nostre battaglie
Scegliamo di respirare
Scegliamo di vivere
Scegliamo di dimenticare.

A proposito ricordate la frase della mia amica: “Ad ogni modo, ognuno ha la sua strada”? Ecco, l’ho inventato tutto di sana pianta. Perché?

  1. Mi divertiva
  2. Ho scelto io di farlo
  3. Avreste letto il pensiero di uno che “se la canta e se la suona”? No? Beh, lo avete appena fatto

Fermoimmagini ed impressioni di Samuele

Fango

Palermo, 21/ 03/ 24

Quando ho scattato questa foto ero con Ali, abbiamo letteralmente rischiato di bloccare il traffico di una stradina di Danisinni per scattarla.

Ali è una delle poche persone che, sistematicamente, mi prende per il cappuccio della felpa e non mi fa cadere, tiene fede a quel cartello alla perfezione.

Non tira chissà che bella aria, vero? c’è un retrogusto di polvere da sparo che comincia ad asfissiare. Certo, se stai in provincia all’asfissia ti ci abitui, ma due fattori di soffocamento quasi in contemporanea metterebbero a dura prova anche il miglior apneista.

E più passano i giorni, più si rimane senza fiato, sempre sul punto di cadere. Io ho paura di cadere, e chi dice che il problema è l’atterraggio spara cazzate. Il problema è la caduta stessa, perchè poi rialzarsi è un terno al lotto, non è detto che ti esca.

C’è sempre Giorgiaccio in giro, “è che quando tocco il fondo, invece di risalire, ho un doppiofondo segreto tutto per me“, e sarà che ancora, ‘sto giro, al doppiofondo non ci sono arrivato, ma stavolta ‘sto vuoto attorno a me mi sembra più pesante del solito.

L’altro giorno è morto l’inventore del Cynar, e mi veniva in mente quel vecchio claim, “Il logorio della vita moderna ti distrugge? Prova un Cynar!”. Ecco, sì, il logorio della vita moderna mi distrugge, e non posso neanche provarlo, il Cynar, perchè i carciofi mi fanno pure schifo.

Meglio, mi distrugge il ronzìo di fondo in una lingua che non è la mia, come un film straniero senza sottotitoli del quale mi mancano codici e possibilità di comprensione. Mi confondono tutte le urla scomposte che sento, e vorrei tanto avere l’acufene anche nell’altro orecchio, chè un rave nel cervello è di gran lunga preferibile.

Mi confondono, e penso di essere solo, e io ho paura di essere solo, anche se, in fondo, io lo so che non sono solo, anche quando sono solo. Me ne dovrei ricordare più spesso, ma ci sono giorni che proprio non ci si riesce.

Lo so che Ali e gli altri, quei pochi altri, non mi fanno cadere. Ma ogni tanto sento comunque mancarmi un po’ di terra sotto ai piedi.

Poi, è anche vero che fino a quando “sento” qualcosa, qualsiasi cosa, va bene. È restare sotto anestesia che mi fa paura, non essere più capace di provare niente, rassegnarmi del tutto. L’unico pericolo che sento veramente è quello di non riuscire più a sentire niente, stancarmi talmente tanto da non riuscire più a stare con le antenne alzate verso il cielo.

Lo so che vi sembra la solita cosa depressoide e disperata, ma, al solito, vi assicuro che non lo è. Anzi, è l’effetto contrario, e fino a quando la paura continua ad avere un nome significa che è ancora un corpo estraneo e sai che cosa stai combattendo, già poco non è.

Facciamo che è un promemoria, e che tornerò a leggerlo quando mi sentirò svuotato.

Nel frattempo, rido e piango, e mi fondo con il cielo e con il fango.

Nuvola

Bisacquino (sulla strada per), 17/ 01/ 2025

Era solo un cielo bianco quello che vedevano i miei occhi durante la guida.
Un cielo di un bianco così opaco ma a volte lucente da coprire la strada.
Era la pioggia a scandire il ritmo dei miei pensieri nella rilettura a mente di quelle frasi che si trasformavano in parole spezzate, senza più un legame tra loro.
Stavo per arrivare a casa.
Volevo ricordarmi di quel cielo e di tutto quello che si portava con sé: le mie urla su una canzone che rimbombava ormai tra i finestrini e ciò che scorreva fuori, le mie incertezze e i miei vuoti.
Mi fermo così in una piazzola di sosta ai margini della strada
Scatto questa foto.
Le gocce sul parabrezza si inseriscono nei colori, nella composizione dello scatto così da rendere gli alberi la strada e il cielo un acquarello.
Se notate il cielo non è più così completamente bianco, come volevo che rimanesse impresso nel ricordarlo. Improvvisa una nuvola più scura si posiziona lì.

Fermoimmagine e impressioni di Ali

Come vorrei che tutto restasse così com’è

“Quanto vorrei che tutto restasse sempre così com’è”

L’abbiamo pensato tutti almeno una volta, senza riflettere proprio nel momento in cui lo diciamo o lo pensiamo, che in realtà è assurda come affermazione, però sarà convincente soltanto pensarlo per poterci rassicurare.

Quante volte invece ci è capitato di guardare il cielo?

Magari così tante da non ricordarci nemmeno quante, e vi dico anche, che lo facciamo sempre poco rispetto a tutte le volte che pensiamo di averlo fatto;

forse, ultimamente, è proprio difficile già fermarsi a pensarlo, perché ci aggrappiamo soltanto all’idea che stiamo vivendo un solo tempo e solo una volta, in una sola era, e che tutto questo passa così velocemente che non possiamo, né dobbiamo fermarci; ma è un presente, quello che crediamo di vivere, che non attacca, che non si sedimenta in noi diventando un eterno futuro e un secolare passato; semplicemente proviamo un’ irrefrenabile corsa confondendo “l’adesso” con l’adesso e “un’altra volta” con un’altra volta.

Mi dicevo e continuo a dirmi che bisogna amare tutto, anche pulire i cessi, e farlo con amore come se stessi pulendo casa tua

Qualsiasi cosa farai amala come amavi la cabina del paradiso quand’eri picciriddo”, per inciso, non sto scrivendo tutto questo a caso, ma mentre scrivo a lume di “torcia” del telefono, (evito così di svegliare tutti), la penna con cui sto scrivendo è riflessa in ombra sulla parete accanto al letto e mi sento proprio nel posto giusto, e ricollego tutto, sia le sensazioni visive che quelle uditive proprio al film che passa in sottofondo durante la scrittura di queste poche righe, “PERFECT DAY” di Wim Wenders, dove il protagonista di mestiere fa proprio l’addetto alle pulizie dei bagni pubblici della città e io non ho visto nessuno così grato di ciò che ha e ciò che fa, non soltanto per il lavoro, ma per tutte le piccole cose che inserisce nelle sue giornate, nella sua perpetua e continuamente diversa routine quotidiana.

Se ognuno di noi sentisse con quanta poeticità si può condurre la propria vita, caricando il semplice scatto fotografico di un cielo coperto dalle foglie di un albero, la cura del proprio corpo, il rituale di preparazione al mattino, potremmo solo capire quanto tutto è la continuazione dell’altro, come tutto è già passato ma lo continui a vivere ancora ora, dove tutto ciò che ti circonda porta con sé dei suoni e del silenzio che faranno parte di te.

Il mondo in realtà è fatto di tantissimi mondi, alcuni sono collegati altri non lo sono”

Sta a noi scegliere in quale dei mondi coabitare;

A me piace il mondo delle ombre come in realtà pare circondarsi il protagonista del film; non so se in realtà due ombre che si sovrappongono diventano più scure ma sono sicura che ogni ombra riflessa, e mi piace pensare al riflesso di un’ombra che porta con se la luce come quella che trova i suoi spiragli tra il verde delle foglie, duri un attimo in più, raddoppi così la sua verità nel momento in cui è catturata.

You’re going to reap just what you sow

Impressioni e fermoimmagini di Ali

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